Racconti brevi - GIAP 3
Non pensavo di riuscirci, ma ecco, aria finalmente, potevo respirare, ma la luce era decisamente troppa e mi accecava, posi allora una mano per ripararmi gli occhi, ma cos’era quella confusione? Non erano i soliti fulmini e rumore di cavalli che si rincorrevano nella mia testa, erano voci ed urla. Ricordo bene quando arrivai percorrendo quei corridoi fatti di ghiaccio, labirinti creati per immagazzinare sacchi di carne, gente persa che si guardava attorno, qualcuno invece fermo puntava il dito verso una luna che non c’era mentre ora, il sole alto, guarda in basso cercando di scrutare nel buio dei sotterranei. Guardai anch’io giù e vidi un corvo fermo su una panchina, anche lui mi fissava mentre, lentamente, continuava a mangiare vermi, poi sorrise e corse via. Quanti fantasmi vestiti di bianco si stavano radunando, volevano che li raggiungessi: “vieni, scendi a giocare con noi”, ma io non volevo, da dove ero potevo ammirare il panorama. Continuavo però a guardare giù, il cielo era verde in aria mentre a terra un prato azzurro. Ricordo cosa mi disse mamma la prima volta che la vidi: “non parlare, non dirgli che mi hai vista, sono topi che cercano di rosicchiarti il cervello, zitto, non dire che ci sono, non dire che mi vedi”. Io invece vedevo tutto, vedevo le linee di ferro che non potevo oltrepassare, vedevo la luce che timida cercava di farsi largo tra gli alberi, vedevo le cose che il buio voleva celare. Lo so, non dovevo dire ai topi che vedevo mamma, ma a me piaceva parlare. “Scendi, forza, vieni a giocare con noi”, sono solo fantasmi vestiti di bianco e sanno solo urlare, a me invece piaceva parlare, con i fiori per esempio, loro si che ascoltavano e alcune volte sorridevano, avrei voluto farci parlare anche mamma, ma lei preferiva rimanere li, nell’ombra a proteggere il bambino, ma a me li dentro mancava l’aria, era buio e faceva freddo. Ricordi chi sei? chiese un topo ad un cane, ma il cane non rispondeva “e tu invece ricordi chi sei?” Questa volta la domanda era rivolta a me, “certo” risposi, “sono un uccello e non dovrei essere legato”, ma era un topo e non poteva capire. Il cielo era sempre lontano da raggiungere dietro le linee di ferro, ma la mia testa riusciva a raggiungerlo e viaggiava, viaggiava sempre più lontano, ma ai topi non piaceva non trovarmi li, trovarmi assente, ed allora per disintegrare il cielo creavano fulmini, una luce bianca, poi tutto buio, poi ancora fulmini, luce bianca e poi ancora buio fino a far sparire tutto intorno a me, anche il mio nome.” Zitto, non devi parlare con i topi altrimenti non andrai mai via, non dire che mi vedi”. Mamma era sempre li, sapevo sempre dove trovarla, io però ero uccello e mi piaceva cinguettare, ma dietro le linee di ferro ero in gabbia e l’aria viziata non mi permetteva di respirare. Ancora urla, “vieni, scendi” ma io stavo aspettando le stelle. Il vento mi gonfiò la lunga camicia
cercando di portarmi via. Ero una vela, no, ero un uccello, ecco i miei fratelli che volteggiavano, erano li, sopra di me ad aspettarmi con la loro mamma, la mia di mamma invece non la ricordavo, non ricordavo quello che mi diceva, comunque zitto non parlare con i topi, non dire che vedi il bambino. Guardai ancora giù e, in mezzo ai fantasmi, si stavano mescolando tante formiche che ridevano ed urlavano. “Scendi, vieni giù a stare con noi”, ma io ero uccello ed ero nato per essere libero come i miei fratelli e non per stare dietro tante linee di ferro, per questo ruppi i lacci che mi impedivano di spiegare le ali. Ormai ero vicino a toccare il cielo bastava un saltello. Li dentro invece ero fermo e mi mancava l’aria, ma i topi non capivano, non hanno mai capito. “Scendi, usa le scale”, gridavano insieme fantasmi e topi, ma io ero uccello e preferii volare.
Ricordo cosa disse la mamma al bambino: “guarda, ora è libero, ha spiccato il volo, può restare con noi, non ci sono più topi o fantasmi a dirgli cosa fare”, ma io sono sempre stato uccello e non potevo restare.
Finalmente libero, via, lontano dal bozzolo che mi tratteneva e lasciato cadere tra le formiche, una volta rotto ecco la luce, calda, ero uccello e finalmente potei andar via nel giorno in cui i fantasmi rimasero a guardare un uomo volare.